Elementi del setting in psicoterapia psicoanalitica: specularità e neutralità
Uno degli elementi fondamentali del setting in psicoterapia psicoanalitica è l’opposizione tra specularità e neutralità.
Il dilemma se l’analista debba essere solo uno specchio neutrale della realtà interna del paziente o anche talora rivelarsi come persona, partecipe della realtà esterna, è presente già in Freud, in numerose formulazioni di sapore contraddittorio spesso nello stesso lavoro. Nel 1913-14, Freud afferma che l’analista deve restare impenetrabile come uno specchio, limitandosi a ‘riflettere‘, e freddo come un chirurgo; ma poi aggiunge che è necessario stabilire una profonda comunicazione interpersonale. Nel 1938, Freud così si esprime: “Noi serviamo al paziente in diverse funzioni, come autorità e sostituto dei genitori, come maestro e come educatore; tuttavia gli rendiamo il miglior servizio come analisti” (608). Freud è quindi rimasto sempre indeciso tra una neutralità asettica e rigorosa, “da chirurgo”, e un atteggiamento umanamente più partecipe.
Glover (1955) rileva il persistere di questa incertezza, affermando che per tutta la storia della terapia psicoanalitica ha regnato una confusione di intenti sugli argomenti della neutralità e dell’intervento, con l’adozione di opinioni e atteggiamenti assai difformi.
L’analista neutrale visto come un’utopia
Successivamente, la neutralità dell’analista è stata, da diversi punti di vista, messa in crisi. Margaret Little (1951) afferma che l’idea dell’analista specchio, che riesce a mantenersi sempre neutrale, è un mito che non ha riscontri nella realtà.
Anche gli psicoanalisti che valorizzano la relazione d’oggetto (Fairbairn, 1958; Guntrip, 1961; ecc.) hanno portato a un durissimo attacco alla neutralità dell’analista, che va a tutto discapito della possibilità di instaurare un rapporto personale autentico e profondo, comprendente aspetti di realtà, con il paziente.
Neutralità fondamentale per la conoscenza oggettiva
Speziale-Bagliacca (1974) evidenzia come la teoria dell’analista specchio, che sembrava superata, riappaia in edizione aggiornata in alcuni analisti Kleiniani; secondo Saraval (1985) specificamente in Bion (1967), quando invita gli analisti a sacrificare desideri e ricordi personali a favore della conoscenza oggettiva.
Elementi del setting in psicoterapia psicoanalitica: la distanza
Un altro elemento del setting in psicoterapia psicoanalitica, riferito all’assetto relazionale dell’analista è la distanza da mantenere rispetto al paziente. Non ci occupiamo qui degli aspetti concreti del concetto – per quanto essi stessi siano strettamente connessi alla nozione di setting – ma di quelli emotivi. Da questo punto i vista, il miglior assetto relazionale deriva dalla capacità dell’analista di oscillare tra l’identificazione con l’Io partecipante e l’Io osservante, per usare i termini di Greenson (1987).
Stone (1881) pone l’accento sulla necessità che l’analista sappia mantenere un’ “equidistanza” tra le varie istanze espresse dal paziente, tra passato e presente, tra “hic et nunc” e “alibi et tunc”, e nel contempo essere in relazione con l’intera personalità del paziente.
Un concetto analogo esprime Lopez (1983) quando propone il “pathos della distanza“, inteso come posizione bilanciata tra identificazione col paziente e ritiro dall’identificazione, al fine di creare l’adeguata tensione relazionale.
Saraval (1988) ritiene che la distanza emotiva rappresenti anche il prerequisito per una vera ed efficace neutralità. Una vicinanza eccessiva o un rapporto troppo coinvolgente facilita la proiezione di parti di sé nell’altro, l’identificazione proiettiva, e facilmente imprime nella relazione coloriture intrusive, simbiotiche, che possono rendere confusiva la comprensione. Una distanza eccessiva, essendo una espressione di difesa dell’analista, comporta una relazione “fredda”, impregnata di narcisismo o di sadismo; in ogni caso, la troppo scarsa identificazione compromette molto la comprensione empatica.
Elementi del setting in psicoterapia psicoanalitica: l’astinenza
Infine l’ultimo degli elementi fondamentali del setting in psicoterapia psicoanalitica è l’astinenza.
Per astinenza – ricorda Freud (1918) – “non si deve intendere la privazione di ogni soddisfazione (che sarebbe ovviamente irrealizzabile), e neanche (…) l’astensione dai rapporti sessuali, bensì qualche cosa di diverso che ha molto più a che fare con la dinamica della malattia e della guarigione“.
“Ricorderete che la causa della malattia del nevrotico è stata una ‘frustrazione’, che i suoi sintomi hanno la funzione di soddisfacimenti sostitutivi. Durante il trattamento si può osservare come ogni miglioramento delle sue condizioni rallenti il processo di guarigione e diminuisca la forza pulsionale che spinge verso di essa (…) per quanto crudele possa sembrare, è nostro dovere far sì che la sofferenza del malato, quanto meno a un certo livello di intensità ed efficacia, non termini prematuramente; se l’eliminazione e la svalutazione dei sintomi ha attenuato questa sofferenza, noi dobbiamo ripristinarla altrove, sotto forma di una privazione dolorosa”
(Freud S. 1918: 22-23) .
È in tal senso, nota Saraval (1988), che l’analista non risponde alle domande che il paziente gli rivolge, non dà i consigli che il paziente gli chiede, non offre soluzioni ai suoi problemi, non cede alle sue seduzioni.
Al riparo del setting. Errori e pericoli
Osservazioni e implicite raccomandazioni relative al sadismo latente e all’erotomania che possono essere coltivati al riparo del setting dallo stesso analista.
“La situazione analitica e soprattutto le sue rigide regole tecniche producono perlopiù nel paziente una sofferenza (…) e un ingiustificato senso di superiorità nell’analista, accompagnato da un certo disprezzo per il paziente (…). L’analisi offre l’opportunità a persone notevolmente inibite (…) di raggiungere senza fatica quel senso di superiorità che li compensa dell’insufficiente capacità di amare”
Ferenczi S., 294-295, Diario clinico, (gennaio-ottobre 1932) Raffaello Cortina editore, Milano 1988.